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di Stefania Ortolano

E’ in libreria un libro speciale: parla di Abruzzo in un paesaggio greco. E’ “La collina dei fuochi fatui” edito da Solfanelli e scritto da Emiliano D’Alessandro. E’ la storia romanzata di Salvatore Di Rado, oggi 92 anni, che nel ’43 sopravvisse alla strage di Cefalonia. Dice l’autore: <<Oltre alla denuncia sociale, perché quei ragazzi della Divisione Acqui, il più grande poteva avere 34 anni, furono abbandonati sull’isola greca dal governo di allora e dall’esercito, questo libro è intriso di riferimenti all’amore e all’amicizia. E all’abruzzesità, che si ritrova soprattutto all’inizio del romanzo>>.
La storia nasce sulla falsariga dell’incontro tra il giornalista e Salvatore che a Cefalonia si salvò per miracolo dall’esecuzione di un plotone fingendosi morto e che nel 2005, grazie anche a Emiliano D’Alessandro, ha ricevuto da Ciampi l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. <<Salvatore – continua l’autore – è un simbolo: dentro la sua storia c’è la storia degli altri 9000 ragazzi trucidati sull’isola>>. <<Quando Di Rado venne a sapere che stavo per scrivere su Cefalonia mi disse che la cosa più importante era che venissero ricordati tutti quei giovani massacrati e non il suo nome>>.
Il libro è nato da un incontro avvenuto nel 2003 tra D’Alessandro e Di Rado, il movente era un semplice intervista, ma l’intervista durò giorni, diventò appunto “La collina dei fuochi fatui”.
<< Nonostante una copertina forte, realizzata da Tanino Liberatore, che lascia intendere il dolore descritto nelle pagine, il libro si rivela un inno alla vita>> conclude D’Alessandro che con il plauso di Dario Fo e Gianni Minà, ha già iniziato il tour che lo porterà a presentare il suo lavoro al pubblico.

 





"Mediterraneo For Peace" - Palermo

Non è solo un racconto contro la guerra: è un inno alla vita liberata dai fantasmi della guerra.
Salvatore, un abruzzese forte e gentile, rievoca, a sessant’anni di distanza dai fatti, la sua avventura in terra di Cefalonia, stupenda isola greca. Nell’arco della notte che Salvatore dedica ai suoi ricordi perché non se ne perdano traccia, il giovane cronista, destinatario del racconto, rimane profondamente suggestionato dai profumi e dalle immagini dell’isola, bagnata dal magico Ionio e riscaldata dal sole del Mediterraneo. Isola che ospitò, durante la seconda guerra mondiale, la Divisione Acqui, composta da dodicimila italiani giustiziati barbaramente dai tedeschi. I giovanissimi militari, al momento dell’armistizio firmato da Badoglio, si trasformarono, agli occhi degli ex alleati del Duce, in vili traditori da passare alle armi, corollario dell’infame legge sottesa alla guerra, ancora oggi ritenuta mezzo idoneo per la (falsa) risoluzione dei problemi. Immaginate, sul verde di una collina soprastante il mare azzurro, i volti dei soldati ventenni abbracciati l’uno all’altro, secondo l’orrendo copione delle esecuzioni; immaginateli nell’istante che guardano in faccia la morte mentre attendono per alcuni indefinibili secondi lo sparo che porrà fine alla loro esistenza. Le emozioni del giovane Salvatore, uno dei dodicimila uomini della sfortunata Divisione Acqui, coinvolgono l’autore al punto tale che egli riesce a trasmettere molto bene al lettore l’empatia provata. Stile discorsivo raffinato e continui colpi di scena rendono il libro un autentico capolavoro e rivolgo a Emiliano D’Alessandro i migliori auguri per un successo pienamente meritato.





di Francesca Molinaro

L’isola di Cefalonia, la strage dell’Acqui: in 12mila muoiono, due soli i superstiti



21 Settembre 1943, uno dei tanti giorni della Seconda guerra mondiale, ma per Salvatore Di Rado è il giorno del suo “nuovo” compleanno, il giorno in cui lui e i suoi compagni della Divisione Acqui vengono fucilati sull’isola di Cefalonia, in Grecia. È questo il cruento incipit del libro La collina dei fuochi fatui (Solfanelli, pp. 160, € 12,00), scritto con realismo e passione dal giornalista e scrittore Emiliano D’Alessandro. Perché il titolo parla di fuochi fatui? Questi ultimi sono delle piccole fiamme che appaiono talvolta nei cimiteri, dovute alla spontanea accensione di prodotti gassosi proprie della decomposizione dei cadaveri. In questo caso non ci si trova in un vero e proprio cimitero, ma sull’isola di Cefalonia, ribattezzata “l’isola della morte”, in cui nel 1943 morirono migliaia di “quelli che furono considerati traditori” italiani, fucilati dall’esercito tedesco, dopo la fuga, l’8 settembre, dei reali italiani. Quelle stesse fiammelle appaiono al giovane giornalista che, dopo oltre sessant’anni da quel terribile giorno, intervista uno dei pochi sopravvissuti, Salvatore Di Rado nella sua casa in Abruzzo. Il giovane giornalista parte da casa con l’intenzione di fare la sua intervista e “via”, un paio d’ore con un vecchietto, nella speranza che ricordi ancora tutto. E invece le cose vanno diversamente, le due ore diventano ben presto una lunga notte fredda e ricca di fuochi fatui, dove l’anziano si dimostra essere un arzillo novantenne dalla memoria lucidissima. Infatti, il vecchio Salvatore racconta per filo e per segno come il giovane Salvatore sia sopravvissuto alla fucilazione di massa avvenuta quella mattina del 21 settembre: «Sentii solo una raffica di mitra e nulla più. Mentre il tempo e lo spazio apparivano a me dilatati, il proiettile stava ormai per concludere la sua corsa letale. Pensai, ci siamo! Nemmeno un grido per quella nube di sangue. Fu in questo momento che mi fucilarono». Queste parole dalla lucidità sconcertante danno il senso della storia quasi surreale vissuta dal giovane Salvatore. Uno dei dodicimila ragazzi che partirono per quella spedizione, l’unico che è tornato per raccontarlo.

 

Sull’isola e davanti al camino

La narrazione è un continuo parallelo fra la vita tranquilla dell’ormai anziano Salvatore, in una modesta casa, con un piccolo caminetto che emana solo qualche fiammella, una moglie dedita alla cucina e in continua ansia per il marito un po’ troppo esuberante per la sua età, e l’avventura vissuta sull’isola greca. Il passato lo racconta come se stesse avvenendo in quell’istante, permettendo al lettore di rivivere con lui quel momento agghiacciante: «Feüer! Fuoco! Fu quella l’ultima parola che potei udire prima di essere fucilato. […] Riuscii, come qualunque incurante spettatore, a rincorrere con lo sguardo le pallottole che mi avrebbero tolto la vita e quelle che avrebbero spezzato l’esistenza dei miei compagni». Con queste frasi sconcertanti l’autore getta il lettore nella storia, senza una precisa contestualizzazione temporale o spaziale. Ci si trova insieme al protagonista ad aspettare quelle pallottole, quasi ne sentiamo l’odore. «Le narici erano piene, sature d’un odore acre, forte, e tutta l’aria circostante era ormai impregnata di quel tanfo disgustoso […] ti penetrava nella pelle, quasi la si poteva toccare». Nemmeno a metà del primo capitolo, quando d’improvviso la narrazione ci riporta al presente, si capisce di cosa si stia parlando, è solo alla fine del capitolo stesso che si inizia a parlare di Isola della morte. L’autore è molto abile nel mantenere la tensione fino all’ultimo, in modo che il lettore sia impossibilitato a metter giù il libro, lo si potrebbe leggere tutto d’un fiato, senza sosta. La guerra viene vista da una duplice prospettiva, quella un po’ ingenua ma coraggiosa del ventiseienne Salvatore, e quella dell’ormai anziano e saggio Salvatore che, vicino al camino della sua piccola casa in campagna, ha ancora le lacrime agli occhi e il groppo in gola per gli amici persi in quel terribile giorno. Il giorno della sua rinascita, il protagonista si salva grazie ad un proiettile che devia la sua traiettoria verso la gamba di Salvatore, lasciandolo un po’ stordito ma vivo. Il giorno in cui lui e un altro miracolato, un altro Salvatore, sono scampati alla fucilazione per poter poi trovare insieme una via d’uscita: «Tese la mano al connazionale, si strinsero in un generoso e magnetico abbraccio. È proprio vero che ci si rende conto di ciò che importante soltanto in determinate circostanze». Ed è grazie al suo omonimo e ad alcuni abitanti dell’isola, che lo ribattezzano Sotyris, che Salvatore trova la via di casa e l’amore.




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di Francesco Blasi

Storia ufficiale e memorie personali sublimati in un romanzo che ha già riscosso il plauso di figure come il premio Nobel Dario Fo e di Gianni Minà, oltre che un certificato di ortodossia storica attestato dal Quirinale. "La collina dei fuochi fatui" è un pezzo del dramma italiano della guerra che era e rimane l'eccidio di Cefalonia, il massacro della divisione Acqui del Regio esercito che all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre decise di dichiarare guerra ai tedeschi, che in pochi giorni scalarono le vette dell'orrore passando da ex alleati a nemici, per divenire infine carnefici a sangue freddo passando per le armi gli sconfitti a cominciare dal comandante, il generale di origine avezzanese Antonio Gandin. Fatti controversi ma in gran parte noti che Emiliano D'Alessandro, gornalista freelance filettese purosangue al debutto da romanziere, descrive sulla falsariga della vicenda personale di Salvatore Di Rado, concittadino classe 1916 che a Cefalonia fu tra i circa 3000 soldati scampati all'eccidio. Un racconto che ferma il tempo come una pellicola al rallenty, per concentrarsi sul viaggio della pallottola che, tra le centinaia sputate dalle mitragliatrici della Wehrmacht, finì col graziare il soldatino abruzzese conficcandosi nel corpo del più vicino commilitone disposto nella catena di dieci uomini da trasformare in cadaveri, secondo l'ordine di vendetta tedesco. Edito da Solfanelli di Chieti e da pochi giorni in libreria, il romanzo centrato sull'avventura greca di Di Rado è un'opera che appartiene per intero al suo autore, che nel 2003 scoprì l'identità di quel roccioso vecchietto ancora in attesa di lasciare ai posteri un racconto in cui si intrecciano onore militare e antimilitarismo per restituire umanità allo stato puro, quella che affiora dopo ogni esperienza in bilico tra la vita e la morte. "La sua narrazione mi rapì", ricorda D'Alessandro, "riportandomi in quell'isola sconvolta da una guerra che gli italiani avevano intrapreso per salvare la dignità di uomini e soldati. Di Rado mi convinse, senza volerlo, che a Cefalonia si consumò il primo atto della Resistenza, purtroppo mai riconosciuto ufficialmente come tale perché messo in scena da uomini in divisa grigioverde". Per l'ex soldato della divisione Acqui il riscatto è venuto, dopo decenni di silenzio forzato da quell'indifferenza descritta da Eduardo in Napoli Milionaria, con il titolo di cavaliere della Repubblica conferito dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. "Il romanzo storico", annota D'Alessandro, "è la formula ideale per riempire i vuoti di marca umana e di descrizione del contesto che inevitabilmente piagano la storiografia ufficiale, che deve ragionare in termini di numeri, date e rapporti tra causa e effetto, ignorando così l'assurdo e le contraddizioni tipiche di vicende che turbano in un vortice l'animo dell'individuo. La somma di queste sofferenze generò la decisione di resistere con le armi". La copertina è di Tanino Liberatore, teatino tra le icone del fumetto europeo d'autore, la matita dietro le tavole di Ranxerox su Frigidaire e a lungo collaboratore di Andrea Pazienza. Su uno sfondo di sangue, il disegno ritrae il protagonista Salvatore nell'atto della scoperta di essere vivo. Finale a sorpresa, da non svelare.


di Renzo Montagnoli - poeta, scrittore e critico letterario -

La tragedia dell'eccidio della Divisione Acqui avvenuto a Cefalonia nel settembre del 1943 è una vicenda tristemente nota, oggetto di diversi studi storici che, pur nella loro completezza, non sono riusciti forse a cogliere l'autentico dramma di chi, considerato dai tedeschi traditore, fu lui stesso tradito dagli artefici di quell'armistizio che rappresenta una delle pagine più vergognose nella storia del nostro paese.

Si può parlare in tanti modi di un evento, anche attraverso un romanzo, ed è quello che ha fatto Emiliano D'Alessandro con quest'opera necessaria non solo per ricordare, ma anche per riconfermare quali sono gli autentici valori della vita
.Forse il paragone con le grandi opere di narrativa aventi come tema la guerra può apparire un po' azzardato, ma sta di fatto che dopo la lettura di queste pagine si ha una visione, emotivamente coinvolgente, degli orrori presenti in ogni conflitto, resa tanto più pregnante dal sentimento di pietà del protagonista nei confronti dei nemici. Infatti in lui non c'è odio, ma solo indignazione per l'istinto bestiale degli uomini
.Fra l'altro, il personaggio principale, Salvatore Di Rado, è stato veramente coinvolto nella strage di Cefalonia e nell'occasione riuscì a sopravvivere alla fucilazione, che occupa le prime pagine del libro, un'esperienza agghiacciante raccontata con grande abilità e che riesce a renderci presenti di fronte al plotone di esecuzione
.Il romanzo, poi, si evolve in una lunga intervista di un giornalista (Emiliano D'Alessandro) appunto al superstite, una continua serie di passaggi fra quel lontano passato mai dimenticato e il presente, il tutto in una notte.

Ciò che stupisce maggiormente in questa narrazione sobria, asciutta, mai incline alla retorica, sono le osservazioni, le riflessioni del protagonista sulla vita che condusse, fino alla liberazione, con gli abitanti di uno sperduto paese di Cefalonia, ex nemici che non esitano ad aiutarlo, con quella semplicità e con quel senso della carità che sono proprie di comunità immuni dalla civiltà occidentale votata al denaro.

Troviamo così uno spaccato di esistenza dove l’uomo è parte paritaria con la natura e dove i valori fondamentali di ogni società non hanno avuto modifiche, proprio perché lì il progresso del XX secolo non è arrivato
.Si può dire che questo contatto con una realtà diversa, con una dimensione più umana, fa rinascere un’altra volta Salvatore Di Rado. Stupito da una vita in cui i rapporti con i propri simili sono prioritari e improntati a uno spirito di mutuo soccorso, il protagonista si integra con entusiasmo nella comunità e a malincuore la lascia quando finisce la guerra. Porterà, però, sempre con sé il ricordo di un’isola che se ha visto la barbarie, gli ha però anche consentito di ritrovare la fiducia nel genere umano. Quella piccola comunità è diventata ormai un suo patrimonio e ciò che ha appreso si è radicato talmente in lui dall’aver sempre condotto successivamente l’esistenza con lo stesso spirito

.La collina dei fuochi fatui è un romanzo di eccellente livello, piacevolissimo da leggere, tanto che ne raccomando vivamente la lettura.


Sono trascorsi oltre sessant’anni da quei fatidici giorni. Oggi Salvatore Di Rado è un uomo avanti con gli anni, con un’espressione sorniona e serena, un sorriso eccentrico stampato sul volto. Vive insieme con la moglie ritirato nella campagna abruzzese dove l’oggi è costituito, più che da eventi reali, da un intersecarsi di ricordi di cui non si è mai liberato. Il pesante fardello di un veterano di guerra, spedito sul fronte greco nel ’37 e rientrato nel ’44, che è stato testimone diretto di una delle pagine più dolorose della storia d’Italia, quella relativa alla strage di Cefalonia. Passato per le armi, ma miracolosamente sopravvissuto ad una fucilazione da parte dell’esercito tedesco, Salvatore avverte ora l’incombente necessità di rendere noti fatti troppo a lungo occultati. Quel giovane cronista locale, alla ricerca di maggiore visibilità professionale e che siede alla sua tavola, gustandosi le succulente portate cucinate dalla moglie e del buon vino prodotto in casa, costituisce l’opportuna cassa di risonanza per lasciare affiorare spezzoni inediti di una dolorosa vicenda storica tutt’ora non chiarita….   

Pur rivelando elementi nuovi e un’inedita chiave interpretava, La collina dei fuochi fatui non è un trattato storico e non intende accreditarsi come un autorevole contributo al dibattito storiografico, ancora aperto, sulla tragica vicenda di Cefalonia, stupenda isola della Grecia, dove migliaia di valorosi soldati italiani furono massacrati senza pietà dopo la resa, dalle truppe tedesche, in seguito alla firma dell’armistizio dell’8 settembre del 1943. Ma è piuttosto un appassionante libro di memorie, che il giornalista abruzzese Emiliano D’Alessandro raccoglie da un vecchio superstite che ne fu vittima, trasponendole in un romanzo asciutto e scorrevole che si legge tutto d’un fiato. Il lettore entra nella storia e si lascia catturare dall’atmosfera coinvolgente di un racconto che riesce a trasmettere tutto nel modo giusto: odori, sapori, emozioni. D’Alessandro costruisce dunque un romanzo serrato che unisce alla precisione della ricostruzione storica, la capacità di scandagliare la sofferta umanità di un personaggio sopravvissuto ad un tragico destino.





Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Superstiti Divisione Acqui

 La collina dei Fuochi Fatui. “Sentii una raffica di mitra e nulla più. Mentre il tempo e lo spazio apparivano a me dilatati, il proiettile stava ormai per concludere la sua corsa letale. Pensai, ci siamo! Nemmeno un grido per quella nube di sangue. Fu in questo modo che mi fucilarono.”

 

E’ dalla sua fucilazione nei pressi di Kardakata che Salvatore Di Rado, reduce abruzzese, comincia il racconto della sua esperienza di soldato del 17reggimento fanteria Divisione Acqui, al giovane scrittore Emiliano D’Alessandro. Il giornalista porta la testimonianza nelle pagine di questo libro arricchendola delle forti emozioni da lui vissute durante un pomeriggio e una intera notte passate a casa di Salvatore ascoltando la sua storia. Questo autore trentenne, realizza un’opera da leggere tutta d’un fiato, alternando il racconto del reduce alle emozioni che egli vive al cospetto e nella casa di questo anziano signore, che gli potrebbe essere nonno. Speriamo che questo libro possa essere letto da molti giovani, poiché valorizza in modo eccelso, il racconto vocale e l’ascolto dello stesso, in un atmosfera quasi irreale per il mondo di oggi. Valorizza in modo eccelso il valore della famiglia, dell’ospitalità e la funzione fondamentale del ruolo dei nonni, che dovrebbero essere ascoltati dai nipoti in quanto depositari della storia, qualunque essa sia, di quei valori e di quella saggezza che possono tramandare alle nuove generazioni.



di Maria Francesca Calvano

Dentro la busta gialla e rettangolare che trovo distesa sulla scrivania, al mio ritorno a casa, c’è La collina dei fuochi fatui. Un libro col titolo in blu e due fasce rosse che corrono lungo i bordi verticali per congiungersi solo sul fondo della copertina, tramite quella scia informe di sangue ch’è l’unica nota di colore di un bellissimo disegno di Tanino Liberatore. Sì, sangue. Perché quella raccontata in questo libro è una storia di guerra e di morte, ricordata sui libri come l’”eccidio di Cefalonia”: una strage immane. Sull’isola greca, nel settembre 1943, migliaia di italiani morirono ammazzati dai tedeschi per l’ansia di punire quei “traditori” che avevano firmato l’armistizio con gli anglo-americani.
Ma, inaspettatamente, questa è anche una storia di salvezza, di buona sorte, di vita. Ed è, sebbene nota, una storia mai raccontata. Mai raccontata così come lo fa l’autore, Emiliano D’Alessandro. Tutto ciò che dobbiamo sapere dal punto di vista storico a proposito di quei terrificanti giorni sull’isola, che per la Divisione Acqui saranno gli ultimi, si può ritrovare nelle pagine de La collina dei Fuochi Fatui, ma soltanto tra le righe di un libro che è soprattutto un diario. Quello di un uomo, Salvatore Di Rado, che, ormai novantenne, racconta ad un giovane giornalista come la sua vita finì per finzione a Cefalonia il 21 settembre 1943.
Lui, morto fucilato per tutti, per i tedeschi innanzitutto, che l’avevano messo in fila con i suoi compagni italiani davanti al plotone d’esecuzione e gli avevano sparato. Quella pallottola che, nelle primissime pagine, vediamo fendere l’aria, nella descrizione al rallentatore dei pensieri di Salvatore Di Rado un istante prima degli spari, avrebbe dovuto penetrare il suo torace. Un’altra avrebbe dovuto colpirlo alla testa, e allora sarebbe stata davvero la fine. Due colpi sparati dai fucili dei tedeschi, puntati contro bersagli inermi come al luna park, annientarono infatti l’intera Divisione Acqui. Morirono tutti i suoi soldati. Morì l’omone al fianco di Salvatore Di Rado, il martire senza nome che, con la sua stessa enorme stazza, gli fece involontariamente da scudo, salvandolo dalle pallottole dei tedeschi. Morirono tutti, attorno. Ma non lui.
Salvatore Di Rado muore sì, ma per finta. Riverso sui cadaveri dei compagni, ufficialmente è morto. E morire senza morire significa aver salva la vita. Significa fuggire, lasciare quel posto di morte rimanendo ancorato all’esistenza, significa sporcarsi gli stivali, sentire caldo, freddo, fame, sete, il dolore di una ferita. Significa vivere e, soprattutto, diventare un testimone. Poter raccontare ciò ch’è stato, sessant’anni dopo. E la penna che raccoglierà i ricordi apparterrà ad Emiliano D’Alessandro.
L’autore avverte il peso della storia che ha tra le mani. Raccontare e leggere questa vicenda individuale e insieme collettiva, singola nel suo carattere universale, unica e globale, significa aprire uno scrigno che sarebbe dovuto rimanere sigillato per sempre, nascosto in eterno sotto la terra che copriva i martiri di Cefalonia, sotto la cenere dei loro corpi bruciati. Significa conoscere e prendere coscienza di un orrore inconcepibile come lo è ogni massacro, recuperare una pagina strappata dal libro della memoria della quale non sarebbe dovuta rimanere traccia ma che, inaspettatamente, miracolosamente, finisce per emergere dalla storia. Ed Emiliano D’Alessandro sceglie consapevolmente di farsene testimone: egli s’avvicina alla storia di quell’uomo consumato dal tempo e dal dolore con lo spirito di giornalista e finisce per trascrivere le sue parole con l’animo di uomo.
L’atmosfera della narrazione è quella intimistica, delicata del ricordo. Salvatore ed Emiliano ne vivono i momenti più drammatici e più dolorosi davanti al fuoco calante del caminetto di casa di Salvatore. Trascorsi pomeriggio e sera a raccontare, i due si ritrovano a parlare in piena notte, fumando un sigaro nella calda calma domestica. In un dialogo mai interrotto, il vecchio e l’autore ripercorrono insieme per ore gli eventi vissuti a Cefalonia. E a me, lettrice, pare di sedere davanti a quel caminetto, ai piedi di quell’uomo e della sua storia. Nelle parole di Salvatore il terrore davanti al plotone d’esecuzione, lo stupore della salvezza insperata, la fuga dalla morte. E poi l’angoscia della solitudine, il sollievo dell’incontro, la meraviglia di sapere che un altro soldato italiano è scampato incredibilmente alla morte, esattamente come lui, e che porta il suo stesso nome: Salvatore. E poi di nuovo la fuga, il dolore. E infine la vita, il lavoro. L’amore per Maria.
Una storia così straordinaria, la sua, che, se non fosse accaduta realmente, sembrerebbe la trama di un romanzo, e quella di Emiliano D’Alessandro narrativa fantasiosa. Invece il libro è un album di vecchie fotografie, una scatola di ricordi di ciò ch’è realmente stato, sessantacinque anni fa. E l’autore consegna questa storia, vivida e vera, alla memoria di noi tutti. Nonostante la tragedia non mi riguardi se non come italiana, devo confessare che è stato difficile andare avanti con la lettura e provare ad immaginare, via via, la rabbia, il dolore, l’impotenza che può aver provato un uomo nel vivere quegli eventi in prima persona. Tuttavia l’autore mi ha letteralmente trascinata nella storia, con una prepotenza tale da costringermi a leggerla in una sera, tutta d’un fiato. E a non




“Un giorno come ieri”, il nuovo romanzo di Emiliano D'Alessandro

Torna in libreria l'autore di Filetto con un'opera letteraria intrisa di singolari figure allegoriche. Un contesto narrativo apparentemente lontano, tuttavia più che mai attuale


E’ in libreria e in tutti gli store online, l’ultima fatica letteraria del giornalista e scrittore Emiliano D’Alessandro. Si intitola "Un giorno come ieri" ed è un romanzo che che riecheggia la tradizione più classica della narrativa italiana.

L’autore del vendutissimo romanzo storico “La collina dei fuochi fatui” (Solfanelli), torna a far parlare di sé con un romanzo che spalanca le porte all’inaccessibile tema della verità inseguita a tutti i costi, e dove, una lunga lista di eccentrici personaggi, accompagnano il lettore per tutta la durata delle 200 pagine. Un pingue medico di provincia, un fabbro, un prete, un farmacista, due giovani sposi, una fanciulla e poi un’ingannevole parata di prove e smentite, fino a giungere ad un epilogo del tutto inaspettato. In un’altra epoca, pettegolezzi, invidie e scandali tracciano la narrazione di quest’opera molto apprezzata anche dallo scrittore Andrea De Carlo che, colpito dal linguaggio fortemente evocativo, ha indirizzato l’autore a vie di pubblicazione oggi all’avanguardia, come il print on demand tanto in voga in America.

Lo stile letterario di D’Alessandro ingloba molteplici tecniche narrative: dalla prosa e dei larghi respiri del romanzo novecentesco, alla forma investigativa di quello giallo, della commedia dell’arte e del tocco onirico di realismo magico.Il romanzo è anche una spietata analisi delle contraddizioni e debolezze di una classe sociale che, mai come oggi, rappresenta la diretta realtà di un quotidiano già vissuto – per l’appunto- come fosse “un giorno come ieri”.



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